“…Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene…”
Tra tutti i viaggi e i percorsi consueti ve ne sono alcuni che ti invitano a lasciare alle spalle la frenesia del fare o del vedere, chiedendoti di accogliere una silenziosa e inaspettata lentezza meditativa.
E forse, tra tutti, sono quelli che preferiamo.
Subiaco è comparsa ai nostri occhi in maniera inaspettata, mentre cercavamo una meta alternativa all’originario itinerario su cui dirottare la nostra evasione.
Il nome mi era familiare, da bambina avevo già visitato quei luoghi.
L’unico ricordo che però custodivo di quel viaggio erano gli occhi azzurri e vispi e il sorriso carismatico di un monaco benedettino australiano che mi aveva guidato all’interno del monastero.
Girovagando su internet scoprimmo che Subiaco era una delle mete principali del “Cammino di San Benedetto”, un itinerario che unisce i luoghi più importanti della vita del Santo.
Subiaco ci aveva scelto.
Che siano le mete a scegliere i pellegrini un po’ come le bacchette?
Avevamo un frammento di un ricordo lontano, un antico cammino e un possibile approdo. Questo pellegrinaggio s’aveva da far!
Day 1
L’unico inconveniente sembrava essere il tempo: solo un weekend a disposizione e le avverse condizioni metereologiche preventivamente annunciate.
Ma dopo aver dormito in tenda nelle condizioni più avverse, alloggiato “abusivamente” in costiera per essere fedeli alla nostra filosofia di viaggio, potevamo farci scoraggiare da sottigliezze facilmente trascurabili?
E fu così che l’indomani ci trovammo in un COTRAL che da Roma ci avrebbe condotti a Subiaco in poco più di un’ora.
Approdati alla meta rimanemmo folgorati dalla bellezza del paese: arroccato sulla roccia, costeggiato alle pendici dal fiume Aniene e contornato da quel verde intenso che solo la primavera sa donarti. Un ponte medievale sembrava esser stato posto li in epoche lontane quale simbolo di benvenuto.
Non avendo ancora chiaro come muoverci e cosa vedere all’interno della città, decidemmo di rivolgerci all’ufficio informazioni posto insolitamente vicino alla fermata degli autobus, dove incontrammo una ragazza bionda dal fare gentile con in fronte una gemma luccicante che scoprimmo solo dopo (e a sua insaputa) si chiamasse Maria Sole.
Ci fornì una mappa e le indicazioni necessarie per raggiungere i luoghi più emblematici della città, il tutto combinato con ottime dritte su cosa fare, dove alloggiare e dove mangiare.
Partimmo quindi all’esplorazione di Subiaco.
Iniziammo costeggiando il parco fluviale per godere un po’ del sole donatoci dalla frizzante aria primaverile e per valutare se effettivamente poteva essere un’alternativa valida ad ogni alloggio low cost suggeritoci, scoprendo che in quei giorni Subiaco era stata scelta per ospitare il Campionato Italiano di Società di Canoa Slalom(con relativo accampamento!).
Avevamo un rifugio per la notte.
Attraversato il suggestivo Ponte medievale di San Francesco, giungemmo alla volta dell’omonimo convento di stile romanico, preservato in parte anche al suo interno.
Nonostante i cancelli fossero chiusi, bastò suonare il campanello per essere accolti da una sorridente sorella ecuadoriana, Delia Aurora, con una spiccata passione per il giardinaggio che, oltre a fornirci il segreto per una relazione stabile (che ovviamente non vi rileveremo), ci condusse, attraversando lo splendido chiostro affrescato, all’interno della Chiesa dove sono custodite tele del Sodoma e di un allievo del Pinturicchio.
Abbandonato il rigoroso silenzio abaziale, tornammo in paese dove rimanemmo folgorati dalla mistica bellezza di Subiaco.
Ogni viuzza, ogni scalinata sembrava essere custode di antiche storie e persino nei luoghi in cui il nuovo si era sovrapposto all’antico era possibile percepire questa magia: come nel caso della Chiesa Neoclassica di Sant’Andrea, posta alle pendici del paese quasi ad invitare i passanti ad un viaggio a ritroso nel tempo.
Dal rigore settecentesco le tortuose scalinate imponevano la salita verso il borgo medievale che collimava con la Rocca Abbaziale, o dell’orologio come profanamente l’avevamo soprannominata.
Durante il tragitto verso la Rocca rimanemmo colpiti da rettangoli colorati posti su enormi teli bianchi che la gente del luogo stava creando. Spinti dalla curiosità chiedemmo ad una signora di cosa si trattasse e lei entusiasta ci rivelò che altro non fosse che segatura colorata che avrebbero utilizzato il 2 Giugno per l’Infiorata, tradizione nata da qualche anno, di cui sembrava andar così fiera da mostrarci anche i lavori prodotti negli anni passati.
Proseguimmo la scalata verso la Rocca, dove ad attenderci all’ingresso c’era Maria Sole che ancora una volta fu la nostra guida all’interno della struttura.
La Rocca Abbaziale, detta anche dei Borgia è un complesso di edifici che, pur essendo stati costruiti in epoca molto distante tra loro, colpiscono per la loro armonia. Nonostante lo stato di conservazione delle singole stanze non sia ottimale, le volte decorate con gli stili dell’epoca colpiscono per la loro decadente bellezza; una bellezza distorta, logorata dal tempo, ma che riesce ancora a resistere.
La perfetta sinergia tra corpo e mente si raggiunge solo assaporando i sapori del luogo e quale momento migliore del tramonto per brindare alla giornata trascorsa?
La Stoccia, sinonimo di merenda nel dialetto locale, è un localino accogliente, arredato con gusto, quasi a voler ricreare le antiche botteghe del borgo medievale, gestito da alcuni amici che hanno avuto il coraggio di rimanere e di rischiare.
La loro cordialità, il loro modo di fare affabile e cordiale ci ha fatti sentire fin da subito “di casa”, nonostante fosse la prima volta che varcavamo la soglia del locale.
Il loro cavallo di battaglia è rappresentato senza alcun dubbio dalle birre artigianali autoprodotte, accompagnate dai piatti del giorno serviti con quel perfetto di mix di tradizione e voglia di sperimentazione.
Alticci e soddisfatti per la piacevole serata, ci rimettemmo zaino in spalla per raggiungere il parco fluviale, già colonizzato dai canoisti, dove avremmo trascorso la notte in tenda.
Day 2
Nonostante le premesse notturne non fossero delle migliori (cani e piccoli lanciatori di pietre ci avevano dato il benvenuto) ci svegliammo ad alba ormai sorta relativamente riposati.
Una colazione era d’obbligo: il bar adocchiato il giorno prima non lontano dal fiume sembrava la soluzione perfetta e, fortunatamente, si rivelò tale.
La sera prima avevamo deciso di modificare ancora una volta l’itinerario, abbandonando l’idea di percorrere la meta del cammino che ci avrebbe condotti a Trevi nel Lazio, e rimanendo così a Subiaco per godere al meglio dei monasteri che avremmo incontrato lungo il cammino.
Camminando lungo la via dei Monasteri, tratto di strada in salita facilmente percorribile da chiunque, dopo un paio di chilometri scorgemmo le antiche scale che originariamente conducevano i pellegrini all’ingresso del monastero di Santa Scolastica.
L’edificio, che domina l’intera vallata, colpisce per la sua maestosa bellezza austera in accordo perfetto con la regola promulgata da San Benedetto che proponeva la vittoria sull’accidia spirituale mediante il cenobitismo ossia una vita comunitaria che prevedeva un tempo per la preghiera e un altro per lo studio e il lavoro, perfettamente sintetizzata nella nota massima “Ora et Labora” inciso, quale memorandium per coloro che ne varcano le soglia, sull’ingresso della porta principale del monastero.
Al nostro arrivo è stato facile spogliare quel luogo da ogni orpello turistico ed immaginarselo in epoche passate popolato da giovani monaci coperti da una lunga tunica nera che con le braccia incrociate e in religioso silenzio seguivano la loro guida, un anziano di barba dotato, nel cammino lungo la preghiera.
Della costellazione di monasteri voluti da San Benedetto nella valle di Subiaco, il monastero di Santa Scolastica ha la peculiarità di essere il più antico e l’unico sopravvissuto alla distruzione Saracena.
L’ingresso è gratuito, sebbene si è “costretti” a delle visite di gruppo guidate che con il giusto Cicerone possono rivelarsi piacevolmente interessanti, ma in questo caso…
Un ragazzo un po’ troppo accademico ci ha condotto tra le meraviglie dei chiostri, tre per l’esattezza, prediligendo la descrizione devota del singolo capitello alla sublime narrazione contenuta in esso.
Partendo dal Chiostro Rinascimentale in cui dominavano le prospettive del tempo, siamo stati condotti, percorrendo ancora una volta la storia a ritroso, alla volta del suggestivo Chiostro Cosmatesco dalle splendide volte affrescate e dai giochi prospettici non voluti su cui si ergeva l’incantevole campanile romanco, attraversando il Chiostro Gotico contornato da un grande arco flamboyant (arco a fiamma).
La visita si concludeva con la visione della Cattedrale di stile neoclassico che, come spesso accade in questi casi, rompeva con l’ardore del bianco l’incanto del tempo.
Complice l’ora tarda decidemmo di non proseguire la via dei Monasteri, ma di percorrere un cammino decisamente più “panteista” fino al Laghetto di San Benedetto.
Lungo la via scorgemmo i resti della Villa di Nerone che un tempo si espandeva, nella sua magnificenza, per buona parte del paese.
Il sentiero si estendeva lungo tutta la gravina e per quanto fosse tortuoso e impervio in alcuni tratti, la fatica sarebbe stata ricompensata dalla combinazione di incanto e stupore che la vista del lago ci stava per offrire.
L’acqua limpida della cascata, un ponticello di legno, la vegetazione rigogliosa e quel silenzio familiare, diverso da quello appena lasciato, rendevano quel luogo un paradiso terrestre in cui stare, essere ed amare.
Ed è in casi come questi che la mente si addormenta facendo risvegliare la vera essenza, quella senza filtri e inibizioni del caso; la stessa che ti porta a chiederti se davanti a tutto questo Qualcosa o Qualcuno può veramente non esistere…
“E’ nel cuore dell’uomo che vive lo spettacolo della natura, per vederlo bisogna sentirlo”.
Un’ultima tappa mancava al finale, la più ancestrale, la più simbolica, la più difficile da raggiungere seguendo gli antichi cammini impervi e forse, per questo, la più bella di tutte: il Sacro Speco.
Il monastero di San Benedetto, o Santuario del Sacro Speco, si ergeva a strapiombo sulla valle sottostante, incassato perfettamente in ogni sua singola componente nella Roccia, creando l’illusione di un’incantevole scenografia ultraterrena.
Approfittammo dell’arrivo anticipato rispetto all’orario di apertura per trovare risposo in quell’oasi di pace (che in breve fu interrotta da un gruppo di amici entusiasti già incontrati nel monastero precedente).
Sebbene la visita al Santuario fosse libera decidemmo ancora una volta di lasciarci guidare: mai scelta fu più saggia…
Paolo, la nostra nuova guida, non era interessata al nozionistico rigore accademico. Ogni sua descrizione appariva, invece, mirata a rimembrare il luogo in cui Benedetto aveva vissuto da uomo, prima ancora di essere proclamato Santo e di come ogni affresco di quel Santuario sembrava voler Santificare l’Umanità.
I suoi racconti ci conducevano lungo le due Chiese sovrapposte: la Superiore, l’edificio più moderno del complesso interamente affrescato dai maestri della Scuola Senese con scene raffiguranti l’antico e il nuovo testamento, e la Chiesa Inferiore, più antica e dedicata alla vita e ai miracoli di San Benedetto e i suoi discepoli; per poi passare alla Cappella della Madonna, interamente dedicata alla vita della Vergine e a quella di San Gregorio, custode di due raffigurazioni di Frate Francesco, non ancora Santo e in visita a Subiaco, quasi a conferma della tesi secondo cui quel luogo santificasse l’umanità dei Santi.
Suggestiva la Grotta della Preghiera, dedicata a San Benedetto, che colpisce per la sua spoglia essenzialità in netto contrasto con la sfarzosità circostante, ma dalla forte aurea carica mistica e spirituale tipico dei luoghi in cui tutto ha inizio.
Il giro si concludeva esternamente, ad un livello ancora inferiore, raggiungibile percorrendo la Scala Santa, in quello che originariamente era l’ingresso principale del Monastero ed accanto a cui si ergeva un’altra grotta, detta dei Pastori, che San Benedetto utilizzava per incontrare le persone desiderose di ascoltare le sue parole durante il suo eremitaggio in quei luoghi.
L’ora era tarda ed il momento di tornare alla civiltà era ormai giunto.
Tra tutti i cammini intrapresi quello di Subiaco è stato il più inaspettato. Non tanto per il programma in perenne mutamento, per le strade percorse, per la bellezza quasi logorante di ogni suo angolo, ma per la forza inaspettata delle persone che la vivono.
Ogni nostra “guida” sublacense sembrava esser stata li posta per ricordarci che Subiaco esiste, nonostante il fascino della Capitale tende a nasconderla ai più.
A Subiaco c’è ancora chi rimane e chi è fiero di farlo,
chi ritorna per cambiare le cose facendo memoria di dove è stato,
chi fa di tutto per portare avanti una tradizione da poco nata,
chi con la sua passione ti sconvolge e ti travolge,
chi si commuove a vedere ogni giorno sbiadire affreschi di una storia quasi eterna…